Vincenzo Barba

Vicepresidente del Forumpace dal 1991 al 1993

«I giovani devono trovare la loro strada. 

La pace non viene dal basso, la pace viene dall’alto.

La pace che viene degli uomini può essere di tutte le qualità.

Se è una pace facile, non è credibile. 

Quindi ai giovani bisogna dire che questo cammino è bellissimo,

 ti cambia la vita, però dove c’è da metterci del proprio è a caro prezzo».

Sono un personaggio conosciuto in Trentino perché nel 1968 ho iniziato a giocare a calcio con il Rovereto e a insegnare educazione fisica a scuola. Vengo dalla Romagna, giocavo nel Riccione, in quarta serie. Nell’agosto del 1968 ho finito l’ISEF e con il diploma avevo la possibilità di insegnare. 

Ero rimasto impressionato quando vinsi un concorso Veritas: io ho fatto il chierichetto fino a quindici anni, quindi sono rimasto nell’ambiente ecclesiale e giocavo a calcio. Ero molto legato a mia madre, proprio alla sottana di mia madre. La mia storia è così: il calcio mi ha dato la possibilità di farmi un’identità, di sapere chi ero. Ero un bambino taciturno, molto riservato, non avevo cose da dire e mi sembrava che la mia vita fosse molto banale. Con il calcio mi sono accorto che venivo richiesto dai più grandi quando facevo le partite perché giocavo bene. Quindi mi apprezzavano tutti per quello. Ho capito che quella poteva essere la mia strada.

Io ho fatto a Forlimpopoli le magistrali, ripetendo il primo anno per la difficoltà che avevo nell’esprimermi e nello scrivere. I miei genitori erano poveri artigiani nel dopoguerra. Io sono nato nel 1942. Tutto ciò significa molto anche per la mia ricerca di nonviolenza e di pace perché sono nato durante la guerra. Io non ricordo molto, ma quello che mi dicevano è che mi portavano fuori dal paese per andare in campagna col panierino per evitare i bombardamenti di Tito. 

La storia poi mi lega anche a Mussolini che ha frequentato il mio stesso istituto magistrale. Lo ha frequentato anche lui e divenne un maestro. Nella mia storia, tramite legami familiari, ho vissuto sulla mia pelle il fascismo, il comunismo, ai tempi non capivo. Il fratello maggiore di mia madre era un gerarca fascista; però mia madre, cattolica, cercava di evitare questa cosa. I cugini picchiatori, sono stati presi e messi dentro. La cultura e la chiesa mi hanno dato delle idealità. Facevo il chierichetto quindi ero disponibile, non contestavo.

E poi giocavo a calcio, mettendo in porta qualsiasi compagno. Giocavo contro quattro, cinque, sei ragazzi dall’altra parte, non riuscivano a prendermi la palla! Mi divertivo da matti. Solo che reagivo male quando venivano gli adulti e mi facevano perdere, quindi piangevo. La mia non violenza era un pianto, io piangevo continuamente. Solo raramente ho messo le mani addosso a qualcuno.

La mia identità era il calcio, mentre la scuola, le magistrali, l’insegnamento erano una cosa che ho sopportato a fatica. Mia madre è stata lungimirante, mi ha costretto a fare magistrali.

L’ambiente del calcio è un ambiente di commercio, noi siamo bestiame. In quel momento il mio sogno era quello di giocare nel Cesena che allora era in serie B. Dopo cinque anni ero il più forte mediano della quarta serie, quindi avrei potuto giocarci. Quando mi hanno ceduto al Riccione, non avevo una monetizzazione, non valevo. Ero un buon giocatore, col problema della vista, delle lenti a contatto, l’handicap che mi ha un po’ fermato nel momento più bello. Ma il destino ha voluto che queste cose succedessero, sono le famose ferite che diventano feritoie, dal quale passa tutta un’altra dimensione culturale. In queste ferite si aprono degli spazi che non si possono prevedere, rimani sorpreso. Alla fine, sono diventato un formatore di alunni, un animatore. La mia professione poteva essere quella dell’allenatore di calcio, un tecnico particolare avendo anche il diploma ISEF.  

Dopo il calcio, ho cambiato vita. La mia fortuna è stata quella di incontrare nella società del Rovereto don Silvio Franch. L’amicizia e le vacanze con don Silvio Franch sono state la mia rivoluzione culturale: Parigi, Londra, Madrid, Istanbul. Nel giro di due estati ho visto l’Europa. Eravamo negli anni 1968, 1969, 1970. Il Rovereto, in quell’anno lì ha vinto il campionato. Io ero il protagonista, in effetti ho contribuito a questa vittoria, clamorosa, perché erano tanti anni che il Rovereto tentava di andare in Serie C ma non ci riusciva. Poi abbiamo fatto il primo anno di Serie C e a metà campionato arrivammo in testa. Con l’allenatore Giavara e Don Silvio Franch avevamo costruito una torre di riferimento per le relazioni della squadra ed è stato quello il nucleo che ha mantenuto questa solidità. È stato quello che ci ha permesso di arrivare in fondo con un risultato, quello di vincere il campionato molto prima che arrivasse la fine. 

Mi sono poi inserito nei gruppi ecumenici, sono entrato in Pax Christi, un movimento internazionale. Gli anni Settanta sono stati gli anni delle comunità ecumeniche: lì ho incontrato Gianni Novello e Daniele Novara. Pax Christi mantiene un un rapporto privilegiato con l’educazione alla pace, oltre che al suo impegno per il disarmo. Io sono stato protagonista nella Pax Christi del Triveneto. Ho contribuito a istituire la Commissione di giustizia e pace in Trentino negli anni del vescovo Gottardi. Sono stato in Algeria per la Convenzione sui diritti dei popoli, sono stato in Brasile con un rappresentante del partito dei diritti di allora. In quel periodo incontravamo tutti i principali personaggi che fuggivano dalle dittature (quelli che sopravvivevano) e che venivano  a testimoniare la rivoluzione in atto, il cambiamento, l’amore per la loro terra che non li poteva accogliere più.