Forum Pace e CNCA del Trentino chiedono che si trovino soluzioni per le persone senza dimora

A seguito del drammatico incendio avvenuto martedì 30 marzo a Trento che ha distrutto completamente il riparo di fortuna che “ospitava” una ventina di persone, sorgono spontanee alcune riflessioni.

La prima considerazione è legata all’uso delle parole che troppo spesso si leggono e si sentono sui nostri media. Ancora una volta, appena saputo dell’incendio, e senza che si avessero informazioni certe su chi fossero gli “abitanti” della struttura abbiamo letto la parola: “clandestini”. Ormai clandestino è una definizione che ha quasi solo valenza politica (negativa).

In realtà invece la quasi totalità delle persone che occupavano la struttura (provenienti in maggioranza dal Pakistan ma anche da Marocco e Nigeria) erano richiedenti protezione internazionale e senza dimora. Alcuni in attesa di entrare nel sistema di accoglienza e altri lo avevano dovuto lasciare. Sono persone riconosciute come portatrici di diritti sanciti dalla Costituzione e dalle normative vigenti. Ma forse ‘clandestini’ lo sono nel concreto perché questo silenzio, questo voltare la faccia, questo continuo negarne l’esistenza spingono donne e uomini in quella clandestinità che si determina con l’indifferenza e il rifiuto; due modalità di gestione alimentate ad arte per generare le paure e il rancore nel quale scavare per costruire il consenso.

L’incendio ha portato nuovamente alla luce il problema non più rinviabile dei senza dimora a Trento: molte delle persone che si rifugiavano nella struttura abbandonata in via Lungadige a Trento erano stati ospiti dei dormitori che sono stati chiusi in questi giorni.

Non si tratta di un’emergenza, né tantomeno di un fenomeno legato al freddo: sono persone che non hanno un tetto, che non hanno accesso ad un diritto basilare, allo strumento fondamentale per vedere i propri diritti tutelati.

Non si dovrebbe aspettare la tragedia prima di capire che si deve cercare di dare una risposta abitativa a chi è in attesa di essere inserito nei progetti di accoglienza ministeriali: è nell’interesse di tutti, banalmente anche di chi dovrebbe usufruire dei servizi di bassa soglia “in quanto tali” e magari non trova posto perché occupato da chi dovrebbe vedere i propri diritti tutelati da altri percorsi.

Ci preoccupa, dovrebbe preoccupare tutti, il vedere messi in competizione e in contrapposizione bisogni, povertà, vulnerabilità. Le risposte, doverose, non devono avvenire in una sorta di guerra tra poveri, ma garantendo a tutti, italiani e immigrati, giovani e anziani, la tutela dei diritti essenziali.

Salutiamo positivamente l’empatia e la disponibilità dimostrate martedì dall’Assessora comunale Maule, fermatasi a discutere con le persone che nell’incendio hanno perso i loro pochi effetti personali e con le attiviste e gli attivisti del Centro Sociale Bruno, del Gioco degli Specchi e delle altre organizzazioni che stanno seguendo la vicenda e fornendo prezioso supporto ai ragazzi rimasti senza nulla. Riteniamo fondamentale la volontà dell’Assessora e del Comune di Trento di voler risolvere la situazione, ma diventa a questo punto necessario che la Provincia risponda finalmente alle numerose sollecitazioni inviate da più parti sull’argomento.

Una comunità di cura è fondata sul mutuo soccorso, su un uso consapevole e collettivo dello spazio pubblico, sulla condivisione delle risorse e su una democrazia di prossimità aperta a tutte e a tutti.

Da questa consapevolezza deve partire – ora e subito – l’azione delle istituzioni e del terzo settore: è un’urgenza non più rimandabile. Lo vediamo da anni, è diventato ancor più evidente un anno fa, all’esplodere della pandemia, e lo ripetiamo oggi: una società può essere sicura solo se sa prendersi cura di tutte le persone che la abitano. Serve agire e serve farlo ora: per pensare al prossimo inverno e per mettere in campo azioni che siano significative anche per i prossimi anni.

Massimiliano Pilati – Presidente Forum trentino per la pace e i diritti umani
Claudio Bassetti – Presidente CNCA

Rise Experience riparte!

Rise Experience nasce per avvicinare ragazze e ragazzi a temi come la consapevolezza sociale, la trasformazione creativa del conflitto. Per farlo, utilizza la montagna come mezzo di condivisione e incontro, organizzando trekking per giovani tra i 15 e i 18 anni.

Le iscrizioni sono aperte fino al 31 marzo.

Per iscriverti, clicca qui.

Nina, Matteo, Stefano e Pietro: Rise nasce quindi da un gruppo di ragazzi e ragazze e guarda ad altri ragazzi e altre ragazze. Promuovere il turismo sostenibile, sensibilizzare sui temi della consapevolezza sociale, ambientale e culturale, valorizzare il territorio: questi i loro obiettivi.

Il progetto mette a confronto sguardi diversi sulla realtà, forte dell’intreccio delle storie dei suoi partecipanti e dei percorsi di vita dei ragazzi che lo hanno immaginato.

Rise è nato in un sabato pomeriggio invernale, tra occhi che brillavano per l’emozione, risate che scaldavano l’ambiente e migliaia di fogli di carta scritti con pennarelli colorati.

Rise è nato per scaldare i cuori, per unire passioni diverse, per osare un po’ di più, per spingerci un po’ più in là. Perché crediamo nella potenza dei e delle giovani, perché vogliamo vedere altri occhi brillare e altri sorrisi illuminare le giornate.

Il cammino. Nina Nicoletti racconta come nasce Rise.

Il turismo sostenibile e l’ambiente, quindi, sono al centro del loro lavoro: l’esperienza di Rise si inserisce in un panorama gigantesco, quello dello slow tourism, che conta circa 12 milioni di utenti in tutta Italia. Dai territori trentini, coinvolgendo un pubblico reattivo – nei social e nella vita reale – Rise vuole trasmettere ad altri ragazzi i valori del rispetto dell’ambiente e del prossimo, di una valorizzazione del territorio che non sia sfruttamento e della cultura ambientalista.

Rise 2021

L’Alta via del Granito sarà al centro del trekking di quest’anno: dal 18 al 21 agosto, sulla catena montuosa del Lagorai, uno dei gruppi montuosi meno antropizzati del Trentino, che offre scorci magnifici e dove si può camminare per ore sentendosi parte di una natura incontaminata, in cui l’uomo è solo di passaggio.

14 ragazze e ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado della provincia di Trento, tra i 15 e i 18 anni (classe 2002/2005) affronteranno trasversalmente, con attività progettate dallo staff, 4 temi, uno per ogni giorno di cammino: Comunità, Consapevolezza ambientale, Interiorità e Trasformazione creativa del conflitto.

Tutto questo per riscoprire il territorio che ci circonda attraverso modalità innovative e rispettose del suo valore ambientale, sociale e culturale e, contemporaneamente, avvicinare e sensibilizzare i/le giovani ai temi dell’ambiente, della gestione del conflitto e della cittadinanza attiva.

Beyond Borders: i Balcani raccontati da Quilombo Trentino e Operazione Colomba

Frontiere e migrazioni. Di questo parleranno Pietro Maffezzoli, volontario di Quilombo Trentino, Sara e Maddalena, volontarie di Operazione Colomba.

L’occasione è il secondo episodio di Beyond Borders: interviste oltre i confini d’Europa, una serie di appuntamenti promossi da Operazione Colomba per raccontare le migrazioni e il lavoro di volontari e volontarie oltre i confini dell’Unione Europea.

Mercoledì 31 marzo, dalle 17.30 in diretta Facebook su Operazione Colomba e Quilombo Trentino e sul canale YouTube di Operazione Colomba, la giornalista Nicole Corritore (Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa) dialogherà con loro sulle loro esperienze e sulle prospettive per i Balcani occidentali e le isole dell’Egeo orientale, dove le due organizzazioni realizzano iniziative di solidarietà nei confronti di attivisti locali e di chi attraversa quelle rotte per arrivare in Europa.

Beyond Borders: interviste oltre i confini d’Europa

Beyond Borders è un’iniziativa di Operazione Colomba per portare la voce di volontarie e volontari, operatori e operatrici che vivono e lavorano ai confini della Fortezza Europa.

La prima intervista di questo ciclo porta il racconto di Eleonora Selmi, ostetrica e operatrice di Medici Senza Frontiere attiva a Lesbo da novembre 2019, in dialogo con Maddalena Landi. Il suo progetto si concentrava nella clinica pediatrica e di maternità attiva dentro al campo di Moria: in particolare, si occupava – insieme ad alcune ostetriche locali – delle donne in gravidanza e non solo, operando sempre a stretto contatto con il reparto di salute mentale attiva nel campo.

Nel novembre 2019, Moria – che poteva ospitare fino a 2.000 persone – ne ospitava 13mila: a marzo 2020, i migranti presenti a Moria erano oltre 20mila.

A Lesbo, Medici Senza Frontiere gestisce una clinica pediatrica fuori dal campo di Moria che offre assistenza sanitaria di base e sostegno alla salute mentale ai minori e servizi di salute sessuale e riproduttiva alle donne incinte.

Dopo l’incendio di Moria, Eleonora Selmi ha visto anche la nascita del nuovo campo, Kara Tepe e racconta come l’intera valle sia un luogo dove le persone tentano di sopravvivere, in condizioni degradanti, dove gli episodi di violenza sono all’ordine del giorno.

In quel contesto – e non solo – Medici Senza Frontiere ha effettuato 7.400 sedute individuali di salute mentale, 46.600 visite ambulatoriali, 11.600 vaccinazioni.

Un report annuale sull’odio online: l’incarico al Forum

Al Forum per la Pace il compito di realizzare un report annuale sull’odio online e per la promozione di campagne di comunicazione sociale via radio.

Questa la decisione ​del Consiglio provinciale che, il 24 marzo, ha approvato all’unanimità quattro risoluzioni promosse in contrasto al linguaggio d’odio e alla violenza verbale.

Questo tema si inserisce in un lavoro che il Forum conduce da sempre in contrasto ad ogni forma di linguaggio d’odio e di violenza verbale: su questi temi, infatti, si era già espresso in relazione alla necessità di promuovere un osservatorio di monitoraggio dell’hate speech, tema di cui il Forum si occupa da anni.

Contrastare e prevenire le attestazioni di hate speech oggi è quanto mai necessario e urgente.

Recentemente, il Forumpace, con la collaborazione proprio del Consiglio Provinciale e del Centro per la Cooperazione Internazionale, ha proposto un primo corso interattivo con l’obiettivo di riconoscere e analizzare i discorsi d’odio: il programma INGRID, infatti, si pone l’obiettivo di contrastare le discriminazioni multiple e intersezionali.

La rotta balcanica e noi

La rotta balcanica rimane la principale via d’accesso all’Europa per migranti e richiedenti protezione internazionale provenienti dalla Turchia: in quella regione, non trova soluzione la crisi umanitaria in atto, con Governi locali incapaci o privi della volontà di far fronte alla situazione e un’Unione Europea che appare comunque distaccata.

La situazione nei Balcani.

I Balcani sono un passaggio obbligato nella rotta migratoria che dalla Turchia e dalla Grecia porta all’Europa settentrionale e occidentale, reso ancora più inevitabile dalla progressiva chiusura della rotta mediterranea e dall’assenza di passi in avanti verso il superamento del modello della Fortezza Europa

“La rotta balcanica, ufficialmente chiusa dal 2016, in realtà ha continuato ad esistere ed essere attiva, cambiando i Paesi di transito. Così se l’Ungheria ha blindato il confine, le persone hanno intrapreso strade nuove per provare ad arrivare in Europa”.

Così scriveva Francesca Scappini su Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel descrivere la rotta balcanica ancora a gennaio scorso.

Questa situazione continua a rimanere tragica: nella regione, sono circa 20mila le persone in stallo, continuamente rimbalzate tra una frontiera e l’altra. Una situazione resa ancora più grave dalla pandemia in atto e dall’uso strumentale che ne viene fatto dai governi della regione: “A Sarajevo la polizia da giorni sta confinando i migranti in un centro di detenzione alla periferia della capitale. Vengono bloccati lungo le strade e trasportati a forza. La prossima settimana analoghi rastrellamenti verranno condotti nell’area di Bihac, al confine con la Croazia”.

A questo aspetto, poi, se ne affianca un altro: i Balcani sono e rimangono una delle regioni più instabili, dal punto di vista geopolitico, del mondo. La loro vicinanza distorce spesso questa percezione ma sappiamo bene quanto gli equilibri tra gli Stati di quella regione siano fragili: la pressione – sociale e politica – e la crisi umanitaria acuiscono le tensioni interne ed esterne agli Stati, aumentando in maniera considerevole attriti mai risolti.

Per rimanere aggiornati su quanto avviene nei Balcani, seguite Lungo la rotta balcanica.

Il ruolo dell’Italia.

L’Italia ha un ruolo diretto in questa emergenza: “il governatore del Friuli Venezia Giulia, la regione italiana che confina con la Slovenia, ha dichiarato che nel 2020 le persone riportate in Slovenia sono state 1.321. Tra gennaio e settembre del 2019, secondo il ministero dell’interno, erano state solo 250”. 

A luglio scorso, nel corso di un’interrogazione parlamentare, l’allora Sottosegretario al Ministero degli Interni Achille Variati, ad una richiesta di chiarimenti circa le pratiche di respingimento informale da parte dell’Italia verso la Slovenia, affermava “le procedure informali di riammissione in Slovenia vengono applicate nei confronti dei migranti rintracciati a ridosso della linea confinaria italo-slovena, quando risulti la provenienza dal territorio sloveno, anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere la protezione internazionale”. 

In seguito la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha fatto marcia indietro dichiarando che solo le persone senza documenti in regola, e non i richiedenti asilo, vengono riportati in Slovenia. Per questi respingimenti, il 18 gennaio 2021 il Viminale è stato condannato dal Tribunale di Roma: la Giudice, nella sua ordinanza, scrive infatti che 

“Lo Stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto [in Croazia, ndr] in ordine al rispetto dei loro diritti fondamentali, primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale”. 

Non solo: aggiunge che il ministero “era in condizioni di sapere” delle “vere e proprie torture inflitte dalla polizia croata”. A questi profili, poi, si aggiunge la pratica – documentata – dei respingimenti a catena che riportano i migranti e le migranti a ritroso lungo la rotta balcanica.

Allo stesso modo, l’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni (IOM) ancora lo scorso febbraio denunciava i respingimenti e le espulsioni di massa da parte degli Stati membri e dell’Unione Europea ai suoi confini esterni. L’IOM, in particolare, ricorda anche che questo genere di azioni sono proibite dal diritto internazionale ed europeo, condannando “nei termini più forti gli abusi su rifugiati e migranti su qualunque confini”.

Continua la raccolta fondi di Ipsia del Trentino.

Il 17 febbraio Ipsia del Trentino insieme a CGIL del Trentino, Uil del Trentino, CISL del Trentino, Arci del Trentino, Caritas del trentino e ACLI Trentine aps hanno dato vita a SOS Bosnia – raccolta fondi per la rotta balcanica.

L’appello è rivolto alla cittadinanza trentina e ha lo scopo di sostenere i migranti e le migranti che si trovano in condizioni disumane lungo tutta la rotta balcanica.

La somma raccolta verrà usata per realizzare cinque ricoveri temperati lungo la rotta balcanica che potranno ospitare al massimo 50 persone ciascuno (100 in periodo no COVID). Qui profughi e rifugiati potranno ripararsi dalle intemperie e ricevere un primo ristoro.

Il Forum della Pace invita la Provincia e i Comuni trentini a prendere posizione contro le violenze in Myanmar

Anche il Trentino si mobilita per condannare le violenze scoppiate in Myanmar a seguito del colpo di Stato militare del 1° febbraio scorso: il Presidente del Forum, Massimiliano Pilati, ha indirizzato una lettera al Presidente della Provincia Maurizio Fugatti e ai Sindaci e alle Sindache dei Comuni trentini affinché condannino e chiedano al Governo italiano di condannare il massacro in corso in Myanmar oltre che un impegno concreto per l’immediata scarcerazione di Aung San Suu Kyi e degli altri prigionieri politici. 

Il Forum Pace, inoltre, chiede al Presidente Fugatti di fare pressione sul nostro Governo affinché intraprenda azioni per l’immediata cessazione della repressione da parte della giunta militare e il rilascio sicuro delle centinaia di manifestanti pacifici arrestati dalle forze armate. Il Forum Pace, infine, rinnova la richiesta di fare pressione affinché il Myanmar riconosca la popolazione Rhoingya, da anni confinata in campi profughi o costretta ad emigrare e vittima di plurime violazioni di diritti umani.

La preoccupazione della comunità internazionale.

Da quel giorno, infatti, il bilancio giornaliero delle vittime, delle brutalità e degli arresti in Myanmar è in costante aumento: l’UNICEF denuncia la detenzione arbitraria di oltre 700 bambini (11 marzo 2021).

L’inviata speciale delle Nazioni Unite Christine Schraner Burgener evidenzia come “la perdurante brutalità, incluse le violenze contro il personale medico e la distruzione delle infrastrutture pubbliche, mina severamente qualunque possibilità di pace e stabilità” (14 marzo 2021).

Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani in Myanmar, Tom Andrews già l’11 marzo di quest’anno si è rivolto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per esprimere tutta la sua preoccupazione e il suo sconcerto per l’escalation delle violenze in Myanmar: questa situazione è peggiorata ogni giorno. Lo stesso Relatore Speciale, il 15 marzo, ha denunciato: “I leader della giunta militare non appartengono al potere, devono essere messi in prigione. I loro rifornimenti di denaro e armi devono essere interrotti subito”.

Anche Amnesty International, l’11 marzo scorso, si è unita al Relatore Speciale Andrews nell’evidenziare la Consiglio dei Diritti Umani il continuo deterioramento della situazione in Myanmar: nella sua nota, l’ONG evidenzia in particolare come – al 7 marzo – fossero 1.790 le persone arrestate, accusate o condannate dal 1 febbraio scorso, moltissime delle quali sono oggetto di sparizioni forzate.

“Superare le sole affermazioni di condanna”.

A fronte di questa continua escalation, Amnesty si rivolge a tutti gli Stati della comunità internazionale per andare al di là delle sole affermazioni di condanna e preoccupazione per la situazione in Myanmar e di intraprendere azioni finalizzate a fermare le violazioni dei diritti umani in atto nel Paese.

Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha richiamato la comunità internazionale ad una presa di posizione, collettivamente e bilateralmente, per favorire la fine della repressione da parte della giunta militare.

Il 15 marzo, inoltre, il Dipartimento di Stato americano ha preso posizione descrivendo la violenza della giunta militare come “immorale e indifendibile”, invitando tutti gli Stati a intraprendere azioni concrete per opporsi al colpo di stato e all’escalation di violenza in Myanmar.

L’uso delle armi: il legame oscuro con l’Italia.

Amnesty International denuncia l’uso di tattiche letali e di un arsenale di armi da campo contro i manifestanti pacifici (4 marzo 2021). 

Armi la cui provenienza deve essere attentamente indagata: fonti giornalistiche (Domani, 11 marzo 2021; La Repubblica, 10 marzo 2021), infatti, hanno riportato l’utilizzo di munizioni prodotte in Italia nella repressione delle proteste da parte dei cittadini del Myanmar. Anche su questo, crediamo debba essere fatta chiarezza.

Le ripercussioni sui Rohingya e le minoranze etniche del Nord Myanmar.

Il golpe comprometterebbe ulteriormente la condizione della minoranza Rohingya: la junta potrebbe approfittare della situazione per espellere ciò che resta della popolazione che è rimasta isolata e alla quale le organizzazioni internazionali e umanitarie come ONU e Croce Rossa non hanno accesso, se non tramite personale locale. Amnesty International teme il ripetersi di crimini contro le minoranze etniche nelle regioni di Rakhin, Chin, Kachin, atrocità che i militari hanno commesso ripetutamente, rimanendo sempre impuniti. 

Nonostante gli innumerevoli rischi affrontati, comunità da ogni parte del paese hanno continuato a rivendicare pacificamente i loro diritti e chiedere il supporto da parte della comunità internazionale.

19 marzo, Sciopero Globale per il Clima: un impegno che ci chiama ancora ad agire.

Oggi tutto il mondo è attraversato dallo Sciopero Globale per il Clima:  l’urgenza è sempre la stessa.

Di fronte ai disastri climatici serve un’azione immediata: dagli incendi che hanno colpito Australia, Nord America e America Latina, alle siccità in Africa, alle tempeste che hanno devastato l’America centrale e il Sud-Est asiatico.

Agire, prendersi cura del mondo, significa anzitutto ricostruire le infrastrutture sociali, evidenziare le interdipendenze, mostrare le connessioni tra i temi ambientali e quelli sociali ed economici.

La Terra è un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e umane. E il cambiamento causato dall’uomo è un processo complesso, cioè multidimensionale, che perciò richiede una spiegazione multicausale“: così Mauro Ceruti e Francesco Bellusci descrivono questa complessità.

In tutto il mondo, le persone che scendono in piazza, quei ragazzi e quelle ragazze che nel 2019 – una vita fa – ci hanno dato la scossa su questi temi, lottano ogni giorno.

Quest’anno una storia è emersa, tra le altre: quella di Disha Ravi, attivista indiana di 22 anni che lotta contro il cambiamento climatico, contro le disuguaglianze, per i diritti di lavoratori e lavoratrici e per la giustizia ambientale.

Dopo aver mandato a Greta Thunberg un dossier sulle proteste dei contadini indiani contro le leggi di liberalizzazione del mercato agricolo di Narendra Modi, Disha Ravi è stata arrestata con l’accusa di voler indebolire e screditare il governo e le sue prerogative.

In realtà, l’attivista indiana è il simbolo di una cornice politica che sta attorno alle battaglie per la giustizia climatica che porterà il movimento fuori dai confini dell’ambientalismo in senso stretto. La sua attività l’ha portata a battersi contro il razzismo, il sessismo, la pena di morte così come per proteggere l’ambiente e la sua biodiversità.

Global Strike 2019 - Trento
Il Global Strike del 2019 a Trento

La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile“.

Lo scriveva anni fa Alexander Langer. Le battaglie per il clima, quelle per il lavoro, quelle in difesa della biodiversità e quelle per la salute sono tutti segmenti di un quadro più ampio.

Disha Ravi, le ragazze e i ragazzi, le mobilitazioni che oggi ci chiamano ancora a questo impegno rappresentano quel quadro.

Gli ospiti di “Scenari di guerra”

JEFF HALPER è un antropologo israeliano di origine statunitense (è nato nel Minnesota nel 1946); ha conseguito il dottorato di ricerca all’università del Wisconsin e ha insegnato in università israeliane e internazionali.

Si è trasferito in Israele nel 1973 e ha fondato nel 1997 l’ICAHD, Israeli Committee Against House Demolitions ( www.icahd.org ), associazione di persone che, per vie legali e con la disobbedienza civile, si oppongono alla demolizione delle case palestinesi e che forniscono supporto economico e materiale per la loro ricostruzione.

Collabora ai gruppi di pianificazione per i parchi nazionali israeliani ed è membro del Comitato Direttivo per i diritti dei palestinesi delle Nazioni Unite. Per questa attività, e per il suo attivismo pacifista, Halper è stato arrestato dal governo israeliano una decina di volte, ed è ora considerato uno dei più autorevoli attivisti israeliani per la pace e i diritti civili.

Libri:  “Ostacoli alla pace”, Edizioni “una città”, 2009. “War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification”, September 2015, Pluto Books

SAMI ADWAN è nativo di Beit Sahour nei pressi di Betlemme. Dal 1972 al 1976 studia in Giordania ad Amman, dove consegue il diploma in pedagogia. Nel 1979 si trasferisce a San Francisco, laureandosi alla California State Univerisity. Dal 1982 al 1984 Sami Adwan lavora come lettore all’università di Hebron. Nel 1987 ritorna a San Francisco, dove ottiene il Ph.D.

Dopo il suo ritorno nella West Bank nel 1991-1992 è rinchiuso nelle carceri israeliane con l’accusa di essere un attivista palestinese. Dal 1992 è docente di Scienze dell’educazione all’università di Betlemme. Insieme al docente israeliano  Eyal Naveh dirige l’istituto di ricerca sulla pace PRIME (Peace Research Institute in the Middle East) con sede a Beit Jala e Tel Aviv.

Il PRIME si propone di contribuire a realizzare le infrastrutture intellettuali per un possibile progetto di pace, formando una nuova generazione di insegnanti e politici disposti a garantire la coesistenza pacifica e la cooperazione nonché la salvaguardia dell’ambiente sociale e naturale.  Da anni cura insieme ai colleghi israeliani un progetto per “disarmare la storia”, per il quale ha ricevuto nel 2001 il premio della Fondazione Langer.

Libri: “La storia dell’altro

JEREMY MILGROM è un rabbino nato negli Usa. Ha studiato al seminario teologico ebraico di New York e si è trasferito in Israele nel 1968. Gran parte della sua vita l’ha dedicata all’impegno per i diritti umani e la pace in Medio Oriente.

Nel 1988 è stato membro fondatore del movimento Rabbini per i diritti umani.

Pioniere nel dialogo interreligioso con palestinesi musulmani e cristiani, ha fondato, insieme al reverendo anglicano palestinese Shehadeh Shehadeh, l’associazione Religiosi per la pace.

Veterano dell’esercito israeliano, ha ottenuto di essere esonerato dagli obblighi di riservista dopo otto anni di battaglie legali.

SAMIR AL QARYOUTIgiornalista palestinese, lavora in Italia da circa 28 anni. Si è laureato in scienze politiche all’Università degli studi di Bologna.

Ha fondato la prima rivista in lingua araba per i giovani universitari palestinesi in Italia. Ha collaborato con la RAI e vari giornali italiani sui problemi del mondo arabo dalla metà degli anni Settanta.

Opinionista per la stampa estera sulle questioni italiane, in particolare per la tv Al Jazeera (la penisola arabica).

WASIM DAHMASH , nasce a Damasco nel 1948, è stato professore a contratto e lettore di Dialettologia Araba al Dipartimento di Studi Orientali dell’Università di Roma “La Sapienza” (1984-2006), ricercatore e docente titolare di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Cagliari (2006-2015).

Attualmente insegna Linguistica Araba al Master di Lingue e Culture Orientali alla IULM a Roma.

I suoi ambiti di ricerca principali sono la traduzione letteraria, la dialettologia araba con particolare riferimento ai dialetti dell’area siro-palestinese e la storia contemporanea della stessa area.

Nell’ambito delle sue ricerche ha prodotto 32 volumi (monografie, antologie, traduzioni letterarie), 120 papers e articoli. Ha curato l’edizione di 51 libri per conto di diverse case editrici e per le Edizioni Q di Roma (40 libri) di cui è direttore delle collane Zenit e Universitaria.